RS Trail Experience: Uscita sul Monte Cengio e i sentieri della Grande Guerra


Bellissimo racconto della nostra ultima uscita dalla penna di Romano Sgarzi:

Gruppo difficile quello del Monte Cengio. Runner che se ne vanno in scioltezza, come salmoni che risalgono
la corrente, argentei ai riflessi del sole. Sembrano sfuggire alla legge di gravità e considerano la salita
solamente una finzione dentro la coscienza perciò per loro, semplicemente, la salita non c’è. E io, dalle
retrovie, con gli occhi di un pesce bastardo di un ramo bastardo del Po, li guardo risalire questo fiume di
pietre e penso che i soldati fossero proprio così: come salmoni grigio verdastri, solo imbrigliati in un
percorso obbligato che finiva in una rete mortale, fatta di filo spinato e cavalli di frisia. Risalivano d’istinto,
trascinati da una forza che non riuscivano a capire, cercando di sfuggire ai pericoli del percorso in una
perenne lotta per la sopravvivenza. E i passi, e le voci, erano suoni strani. I sassi saltavano, colpiti al cuore,
sbriciolati si mescolavano a terra e sangue e cambiavano colore, assistendo muti e scavati fin dentro
l’anima per far passare migliaia di occhi sgranati e stanchi e gli alberi, ormai senza presa, con le radici in aria
sembravano gigantesche mani protese verso il cielo, disperate e incredule. E le urla, nell’aria carica di fumo
e balistite, a vomitare un coraggio finto, per fare l’ultimo sprint, l’ultima corsa verso un improbabile
traguardo, col petto sul nastro del filo spinato e una medaglia al valore sul podio del tempo.
Noi oggi siamo contenti, c’è caldo ma ci si dura. Le nostre giberne si chiamano flask e non portano proiettili
e l’umido delle gallerie scavate nella roccia è solo uno squilibrio termico di un momento. Procediamo in
compagnia ma soli con la nostra stanchezza e penso che anche loro fossero soli in qualche modo, soli con la
propria paura.
Ammassati a quei muri di pietra, come topi col timore di uscire. Quanta paura poteva stare dentro quei
cuori impazziti? Quanta paura potevano sopportare prima di spaccarsi, prima che i pensieri fossero
risucchiati nel centro di un vortice senza senso, ammazzati da alcool e droga e trascinati via verso il cielo?
Quanto coraggio serviva per vincere la paura? Si potevano riempire borracce, stivali, giberne e cuori e testa
di coraggio. Eppure non bastava. La paura è più pesante e inchioda al suolo, ti ricaccia dentro la tana come
un topo che sa che l’artiglio dell’aquila è sempre in agguato; ti secca la bocca e ti sembra di mangiare il
deserto, ti stringe lo stomaco e sembra che ti spezzi in due. Eppure si parte, via di corsa! E, di fronte, un
orizzonte che non si avvicina mai. Anche se i piedi vogliono cambiare direzione e le gambe pure, e pure la
testa che fatica a comprendere quei corpi schiantati sui monti e coperti dai sassi.
Gli stessi sassi, la stessa pietra che in qualche modo stiamo conquistando anche noi, risalendola, come
salmoni di fiume. Quella pietra ormai lavata e di memoria lunga che cerca, con la sua stessa presenza
ingombrante, di raccontare verità scomode. Quanti saluti, quante lettere sono rimaste parole, incastrate fra
i rami dei boschi, sepolte fra gli anfratti di questa montagna scalfita dalla protervia dell’uomo? Quante
lacrime hanno bagnato questi sassi, poi asciugate dal sole di una nuova estate? Quante domande hanno
ottenuto risposta? E noi siamo in cima, arrivati alla croce lambiamo il sacrario e omaggiamo a modo nostro:
un pensiero e una foto per lanciare nel tempo una memoria che stempera sempre di più, per ricordare che
ci siamo stati, per ricordare che ci sono stati. Poi si scende, e ci lasciamo alle spalle quel silenzioso rumore
che, a volte, dentro di me, è ancora assordante. Una discesa che è quasi fuga. Fuga da una strana
dimensione spazio-temporale che ogni volta mi coglie impreparato, per tornare al mio tempo, col fiato
corto e l’aria che mi riempie i polmoni. E finalmente si cammina, così raccolgo i pensieri fino a quando
qualcuno dice: “dai che corriamo un po’!”. Così, lentamente, torno nelle retrovie, solo con la mia
stanchezza e, come un pesce bastardo di un ramo bastardo del Po torno ad osservare i salmoni che, con
sicurezza, risalgono la corrente.